Bada che a questo punto l'allarme non è più soltanto mio, è dell'intera opinione pubblica italiana. Ricorda che da un conflitto politico-istituzionale di questa asprezza non si salva nessuno. E si aprirà un baratro. Hai, come tutti, il diritto di difenderti, ma per farlo ci sono le strade previste dall'ordinamento, con strumenti e sedi precise, che possono arrivare fino alla Corte costituzionale: sceglile subito, dato che ti dici sicuro di poterti scagionare, e abbandona la scorciatoia distruttiva dello scontro senza quartiere. Sono di questo tenore gli avvertimenti che Giorgio Napolitano oppone a Silvio Berlusconi, dopo aver ascoltato i suoi sfoghi da «vittima di una persecuzione giudiziaria». Riflessioni ferme, quelle del capo dello Stato. Pronunciate con il tono di chi, in una fase delicatissima e ormai al limite della gestibilità, tanto da mettere in torsione lo stesso sistema democratico, rinuncia a platonici appelli e lancia invece l'estremo richiamo alla responsabilità. Indicando un argine che non può essere varcato.
Il Cavaliere quindi annuisce e si affanna ad assicurare che condivide, che è d'accordo, che si comporterà di conseguenza. Promette dunque che non farà strappi o colpi di mano, e che non ricorrerà alla decretazione d'urgenza. Ma di fatto tiene il punto e insiste: non rinuncerà a cambiare la «malagiustizia» e a tutelarsi, con ogni mezzo possibile. Si può riassumere così, con i caratteri di una prova di forza nella quale ognuno resta gelidamente fermo nelle proprie posizioni, il faccia a faccia di ieri pomeriggio tra presidente della Repubblica e premier. Colloquio durato quasi un'ora e mezza e definito «franco» (il che, nel gergo quirinalizio, equivale a «teso, duro»), chiesto da Palazzo Chigi per cercare una sponda - se non proprio amica, almeno non ostile - in questi giorni di guerra contro tutti. L'incontro segue lo schema delle ultime esternazioni pubbliche dei due interlocutori. Berlusconi recita il cahier de doleance collaudato in tanti video-messaggi. Denuncia d'essere il politico «più processato della storia e però mai condannato». Recrimina d'essere «ingiustamente aggredito» dalla Procura di Milano con metodi da Germania Est. Contesta d'essere spiato dentro la sua stessa casa e additato come una persona amorale per delle «semplici feste» alle quali partecipavano amici e familiari, mentre, essendo uomo «di buon cuore», ai suoi ospiti ha fatto solo «del bene». In definitiva, lui è una vittima delle toghe «politicizzate». Ecco perché non accetta la giustizia di «rito ambrosiano».
Poi, quando il Cavaliere prende fiato, parla lui e spiega le ragioni della sua «preoccupazione e inquietudine» per un insopportabile muro contro muro che non risparmia alcuna istituzione e sconcerta gli italiani. E, quanto all'ansia di difendersi del premier, ripete ciò che ha detto poche ore prima al comitato di presidenza del Csm (e subito trasmesso alle agenzie di stampa, come un monito preventivo a Palazzo Chigi): «Nella Costituzione e nella legge possono essere trovati i riferimenti di principio e i canali normativi e procedurali per far valere insieme le ragioni della legalità nel loro necessario rigore e le garanzie del giusto processo». Aggiungendo che «fuori da questo quadro, ci sono soltanto le tentazioni di conflitti istituzionali e strappi mediatici che non possono condurre, per nessuno, a conclusioni di verità e di giustizia».
Se si intende sollevare una questione di competenza, il «giudice terzo» c'è. Mentre non serve ed è anzi sbagliato, come ha ammesso anche Pecorella, ex avvocato di Berlusconi, investire del problema il Parlamento. O rovesciarne i termini sull'opinione pubblica con un diluvio di interviste e interventi in tv. Quanto ai provvedimenti sulla giustizia di cui il Cavaliere gli fa cenno (immunità parlamentare?, processo breve?, intercettazioni?), Giorgio Napolitano non si sbilancia. Valuterà nel merito, quando le riforme gli arriveranno sul tavolo. Il che, dato il puntiglio che mette sempre nell'analizzare le leggi, può esser stato colto come la promessa che non farà sconti.
Il premier incassa e cerca di cambiare registro, come forse lo sollecita Gianni Letta, mediatore instancabile che lo accompagna. Dagli aspetti politicamente e istituzionalmente scabrosi del «caso Ruby», sposta il discorso sul tema della governabilità e sulla sua voglia di «rilanciare l'azione del governo». Si fa rassicurante, adesso. Dice: ho i numeri per affrontare le emergenze dell'economia e anche per andare oltre l'ordinaria amministrazione, facendo le riforme. Il presidente annuisce e congeda l'ospite con un sospiroso richiamo alla «responsabilità». Il big-bang tra poteri dello Stato è forse scansato, per un altro po'.