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Borse, la sindrome cinese affonda Wall Street che perde 1000 punti In apertura.

Non si ricorda un'altra seduta di Wall Street con l'indice Dow Jones che perde il 5,7% in apertura e brucia oltre mille punti nei primi minuti di contrattazione. La tempesta che ha avuto il suo epicentro a Shangai e si è estesa rapidamente su tutta l'Asia ha aumentato la sua potenza distruttiva in Europa, mai così in rosso dal 2008, anno della crisi Lehman Brothers. E poi oltre Atlantico l'apertura pesantemente negativa di Wall Street ha ulteriormente depresso le piazze del vecchio continente. Dopo circa un'ora di contrattazione la borsa di New York ha ridotto le perdite ma ormai appare molto difficile che i listini mondiali riescano a recuperare entro stasera. Come conseguenza indiretta e non richiesta volano l'euro e lo yen, considerati beni rifugio. Dietro l'impennato dell'euro c'è anche la convinzione che, a questo punto, difficilmente la Fed potrà alzare i tassi, come annunciato, il mese prossimo. Tengono i titoli di stato, tutti i titoli di stato della zona euro, ma lo spread tra Btp bonos e bund torna ad allargarsi. A Milano tengono Campari, Ansaldo, Pirelli, Finmeccanica, poco sotto la parità, i titoli peggiori gli energetici Eni e Tenaris, soffre il lusso, male anche Mps. Quindi un inizio settimana difficilissimo per tutti i mercati, che faticheranno a risalire la china a meno di segnali importanti dalle banche centrali. C'è attesa per quello che potrà decidere, nelle prossime ore la banca centrale Cinese, che ha fin qui resistito alla tentazione di inondare di liquidità il mercato per non indebolire ulteriormente il cambio ma la dimensione e l'entità delle perdite su tutte le piazze mondiali richiede probabilmente misure eccezionali. Importanti anche i segnali che potranno arrivare da giovedì dal simposio dei banchieri centrali di Jackson Hole, nel Wyoming.

borse_ shangai trascina sotto le altre borse asiaticheLa reazione dei mercati è talmente violenta da chiarire che, a questo punto, la preoccupazione non è per una correzione di alcuni decimali della moneta cinese e neppure per la prospettiva di una guerra delle valure in Asia, come è stato scritto. Il tema centrale è la crescita cui è legata la scarsa domanda globale.

Gli accenni di svalutazione delle monete sono stati, semmai, altrettanti campanelli d'allarme per un rallentamento che sta investendo tutto il mondo dei paesi emergenti e dei loro partner commerciali. L'epicentro ancora una volta in Cina, dopo i brutti dati sulla produzione industriale, l'export e la fiducia delle imprese che hanno costellato la settimana appena trascorsa. Pechino appare ormai in brusca frenata, trascina verso il basso le prospettive di tutti quei paesi emergenti che finora hanno visto nella Cina il mercato di sbocco per materie prime e prodotti energetici.

L'altro protagonista che sta spingendo i listini al ribasso è il petrolio. L'oro nero era già molto basso per motivi legati all'offerta ovvero per via della guerra di prezzi tra i tradizionali produttori sauditi e i pionieri dello Shale Oil americani. Ora su questo plafond si innesta una crisi della domanda con la Cina che probabilmente modererà il suo appetito per i prodotti energetici. Il petrolio, oggi meno importante di un tempo per le economie occidentali, è il fondamentale parametro di benessere per la Russia, le repubbliche ex sovietiche, i paesi mediorientali, molti paesi africani e sudamericani, molti dei quali sono acquirenti dei nostri prodotti da esportazione.

Insomma, a deprimere gli spiriti animali degli investitori è la paura di una nuova deflazione mondiale, di una crisi della domanda che si manifesta proprio mentre la crisi Lehman brothers sembrava avviata a soluzione. C'è anche una diffusa sfiducia, a questo punto, che le misure di espansione monetaria avviate dalle banche centrali, possano effettivamente risolvere la situazione. Se la Banca centrale cinese dovesse mettere in campo una grande iniezione di liquidità a crollare, a quel punto potrebbe essere il cambio, aprendo tutta una nuova serie di problemi.

Secondo quanto scrive Alberto Gallo di Royal Bank of Scotland "Le autorità hanno risposto alla crisi finanziaria con una politica monetaria espansiva e bassi tassi di interesse. I critici hanno sempre sottolineato la contraddizione di voler risolvere una crisi del debito creando ancora più debito. Messa in modo diverso, il QE è stato necessario ma non sufficiente per una vera ripresa. Ora siamo arrivati al momento della resa dei conti e i banchieri centrali sembrano nudi, i mercati hanno perso la fede."