Cagliari, 30 Apr 2019 - La domanda da porsi è: quando ci si può ritenere scivolati nel patologico, piuttosto che in una sana voglia di miglioramento?
La risposta è: quando si arriva ad acquisire l'abitudine di esigere da sé o dagli altri più di quanto richiesto da un determinato contesto, allora ci si potrà considerare preda del perfezionismo.
Per dovere di cronaca stiamo parlando del Perfezionismo Clinico, un tratto del Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità secondo il DSM V (Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali) e non di quello non patologico.
Nel corso delle ricerche e delle esperienze cliniche sono stati individuate 3 tipologie di perfezionismo, che attualmente possono manifestarsi separatamente o in congiunzione:
Perfezionismo auto-orientato: che riflette la tendenza ad imporsi standard elevati e ad essere particolarmente critici e severi con sé stessi.
Perfezionismo orientato verso l’altro: caratterizzato dalla tendenza a definire standard elevati per gli altri, con valutazioni esigenti e rigorose rivolte alla prestazione altrui.
Perfezionismo socialmente prescritto: indica la tendenza a credere che gli altri nutrano aspettative elevate nei loro riguardi e rispetto alle loro prestazioni, e giudicheranno negativamente l’eventuale fallimento (https://www.chiarafrancesconi.it/letture/comportamento-e-personalita/76-perfezionismo-patologico.html).
La definizione che vi offrirò oggi a livello di bibliografia è tratta dal Corso di Educazione Alimentare che feci anni fa con quello che considero uno dei miei mentori, il Dott. Giuseppe Musolino (Biologo Nutrizionista, diplomato ISEF, https://musolino.jimdo.com), professionista che reputo molto acuto e sensibile.
Da cosa parte il Perfezionismo?
Talvolta, alla base di tutto c'è una caparbia ricerca del successo, intesa anche come
approvazione degli altri; altre volte, invece, la motivazione è insita nel succitato narcisismo, ovvero nel bisogno di evitare fallimenti.
Per certi versi, tali caratteristiche potrebbero anche essere auspicabili, perché gli sforzi profusi si accompagnano spesso ad un aumento del senso di autostima.
Il problema è che queste peculiarità vengono spinte fino al parossismo, tanto da tramutarle in difetti.
Il perfezionista, infatti, non ha il senso del limite: da una parte si considera onnipotente, dall'altra si sente estremamente insicuro, perché non riesce a comprendere quanto sforzo profondere per raggiungere il suo obiettivo.
E allora, nel dubbio che non stia dando il massimo, infonde sempre maggiore impegno, come nel più classico dei circoli viziosi.
La paura di fallire genera ansia, che sviluppa insicurezza, che origina l'errore, che crea frustrazione, che innesca le alterazioni dell'umore, la depressione, l'intolleranza verso il prossimo, l'alienazione, l'isolamento sociale. La solitudine. Perché gli altri non sono all'altezza, sono inferiori, incapaci. Mediocri. Non ci si sforza di comprendere, apprezzare, accettare il resto del mondo.
Un delirio egocentrico, in cui l'attitudine è quella di criticare e sminuire l'operato altrui, ma anche il proprio.
Tuttavia, tali conseguenze negative vengono solitamente ben tollerate, perché considerate attestazione dei propri sforzi.
Quando gli obiettivi sono raggiunti, vengono subito sminuiti e di riflesso viene innalzato il livello dei successivi.
In un perenne stato di insoddisfazione, in cui il motivo portante è quello di dovere dimostrare sempre il proprio valore.
In questo modo, il perfezionista finisce per impegnarsi a fondo in un numero di attività via via sempre minore, finché non raramente queste si riducono ad una soltanto.
La libertà viene meno, si diventa schiavi di se stessi.
Il pensiero diviene unidimensionale e unidirezionale, perché la perfezione, come la verità, deve per definizione stare inequivocabilmente da un'unica parte, non può stare in due contesti contemporaneamente, si parla allora di pensiero dicotomico o del “tutto o nulla”.
Viene cioè a mancare ogni sfumatura nel modo di pensare e di agire.
Tutto è visto in bianco o nero (o così o niente!), non esiste una via di mezzo: i risultati
conseguiti sono ottimi o disastrosi, la dieta si segue alla lettera o ci si abbuffa ad libitum, si va a correre tutti i giorni o mai, ci si dopa o si abbandona la palestra.
La ricerca della perfezione può facilmente intaccare anche la sfera nutrizionale, perché il perfezionista è convinto che la stima degli altri sia condizionata al peso e alla condizione fisica raggiunta.
La correlazione del perfezionismo con i disturbi del comportamento alimentare è stata sottolineata da un gran numero di Autori.
Per comodità di consultazione vi metto questo link a conferma di ciò che è scritto su come fonte ed evidenza scientifica (https://www.aidap.org/2016/perfezionismo-e-disturbi-dellalimentazione/).
La paura del fallimento qui si traduce in timore di ingrassare, e per fronteggiare ciò si è disposti a sottostare ai regimi dietetici più duri, sempre basati su diktat dicotomici: “devo seguire una dieta da 1000 calorie, non una di più”.
L'unica cosa che si ottiene il più delle volte è uno stallo del metabolismo, un blocco che ci pone in un limbo dove sicuramente non si ingrassa ma in maniera altrettanto sicura non si DIMAGRISCE.
Col tempo, la dieta ferrea porta inevitabilmente ad un aumento del senso di fame, soprattutto nei confronti dei carboidrati. Sopraggiunge dunque il ''rebound'' cioè rimbalzo, che inizia solitamente con piccole trasgressioni.
Una volta infrante le regole, però, subentrano le emozioni negative (senso di colpa, disgusto, paura di ingrassare, fallimento) e con esse un senso di perdita di controllo.
Ecco allora riproporsi lo scisma dicotomico, “tutto o niente”: “ho ceduto… ora posso anche far fuori tutto il frigo, tanto ormai lo sgarro è commesso”.
Hanno così inizio le abbuffate, per compensare le quali si tenta di rimediare con comportamenti sempre più intransigenti (dieta ancora più ferrea, digiuno, vomito autoindotto, lassativi, diuretici, controllo ossessivo del peso, attività fisica compulsiva).
Il risultato finale di ogni ciclo del genere è un progressivo calo dell'autostima e un costante aumento delle preoccupazioni riguardo al peso e al corpo.
Insieme a quello della danza, il mondo del body building è sicuramente uno di quelli più a rischio.
Primo, perché si tratta dello sport perfezionistico per eccellenza; secondo, perché il cibo viene interpretato più da un punto di vista funzionale che edonistico (“mangio le proteine”, non “gusto una succulenta fiorentina”); terzo, perché certe estremizzazioni dietetiche (vedi soprattutto gli attuali orientamenti carbofobici) sono potenzialmente prodromiche di future alterazioni del comportamento alimentare, tipo diete chetogeniche senza consapevolezza o competenze.
Lo scopo primo di un programma dietetico non deve essere quello di far dimagrire, ma quello di poter essere adottato come stile di vita, ovvero mantenuto per sempre.
Non è certo il caso della maggior parte dei programmi nutrizionali in voga negli ultimi tempi.
Apro parentesi.
A lavoro mi capita di osservare clienti che chiedono il '' Tutto e Subito '' e colleghi che lo offrono.
Lungi da me l'idea sincera di giudicare, perché posso capirlo, però con altrettanta fermezza non condivido.
Il mio obbiettivo quando si ha il piacere di scegliermi come Personal Trainer sposa esattamente la filosofia del mio Formatore, cioè la strutturazione mentale di uno stile che possa essere esperito per sempre, consapevoli che possono ovviamente anche presentarsi momenti o addirittura periodi di debacle.
È umano.
Può capitare.
Lo accetto nella vita dei miei clienti, come lo accetto nella mia.
Forse è anche per questi programmi nutrizionali e di allenamento ''Pret a Porter'' che ci sono così tante persone fortemente sovrappeso in Italia e così tante persone che vivono l'allenamento e la nutrizione in maniera così conflittuale, io le osservo e a volte mi sembrano le due facce della stessa moneta chiamata sofferenza.
Non posso non dispiacermi.
Sia ben chiaro esistono persone con qualche chilo in più e persone con una condotta perfezionista che vivono la vita con serenità, ciò che a volte ci allontana gli uni dagli altri sono i giudizi e le etichette non richieste, che affibbiamo non certo per aiutare ma per incasellare un essere umano in una cornice figlia della condanna perché casualmente ha un Modus Vivendi diverso dal nostro. A.M.